Corallo scolpito tritone e delfini
Corallo siciliano di notevole fattura scolpito nelle sembianze di un tritone con delfini montato posteriormente a spilla.
Manifattura siciliana, Trapani o Sciacca tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX sec.
Dimensioni cm 6 x 5 ca – stato di conservazione eccellente, commisurato all’epoca.
Per secoli il corallo fu ritenuto un vegetale, così la pensavano i Greci, condivisi dallo storico Romano Plinio il Vecchio, altri nel dubbio lo ritenevano un minerale, da lì l’equivoco della definizione “L’ORO ROSSO“. Nel 1723 il medico Marsigliese Jean Antoine Peyssonnel scoprì che il controverso alberello era in realtà un animale, anzi una colonia di animaletti del genere corallium, un polipetto che vive attaccato alla roccia, in mari caldi e relativamente profondi.
Le qualità più pregiate sono il “rosso” di Sardegna, Sciacca e Trapani in Sicilia, ma quella più conosciuta è Torre del Greco, vicino Napoli. Oggi la carenza del CORALLO nei nostri mari ed il divieto di pescarlo ci induce a considerarlo alla pari dell’ORO.
Ogni oggetto è un pezzo unico ed originale, lavorato a mano con maestria dagli artigiani italiani dell’epoca.
La storia del corallo trapanese ha origini molto lontane e già nel secolo XII il viaggiatore arabo Idrisi ne segnalava la pregiata qualità. Nel XIV secolo la scoperta di una “miniera” di coralli nel mare di Trapani (1416-1418) e nei pressi di San Vito Lo Capo (1439), attirò in città alcune famiglie di ebrei del Maghreb che diedero un notevole contributo alla lavorazione, dalla pulitura alla realizzazione di sferette, olivette, piccole bugne o virgolette.
Il rinvenimento di altri banchi corallini tra il 1530 e il 1535, a Tabarca, determinò l’incremento della produzione di manufatti e soprattutto la commercializzazione di essi sui vari mercati d’Italia.
Attorno al corallo orbitavano tre categorie di lavoratori: i pescatori, denominati corallai, i maestri corallari, gli scultori.
I primi si limitavano a pescare il rosso materiale e a venderlo ai corallari i quali lo pulivano togliendo la patina arancione (cenosarco) con raschetti in ferro e pietra molare, lo tagliavano con la tenaglia e lo lavoravano con la lima e con la mola di pietra, fino a ridurlo in piccoli elementi o sferette che venivano bucate con il fusellino (piccolo trapano), per poi essere destinate alla confezione di collane, bracciali e rosari. Agli scultori spettava il compito di lavorare i rami più grossi per creare, con il bulino ed il cesello, piccole sculture o cammei di elevato pregio artistico; essi erano però obbligati a subordinare la propria creatività al ramo e ad operare “in piccolo”.
La tecnica più antica per applicare baccelli, virgolette, puntini, linguette di corallo sul rame precedentemente forato, è quella del retroincastro, consistente nel fissare dal retro i piccoli elementi di corallo con una speciale colla formata da pece, cera e tela, e poi nel ricoprire (sempre il retro) con un’altra lastra di rame, spesso ornata con incisioni e punzonature.
Le superfici degli oggetti venivano interamente riempite di corallo, ripetendo un’antica consuetudine arabo-islamica di decorare “a tappeto”, una sorta di horror vacui, ben confacente al gusto del tempo.
Sul finire del secolo XVII i maestri trapanesi cambiano la tecnica di applicazione sul rame, sostituendo il retroincastro con la cucitura attraverso fili metallici e piccoli perni.
Quando sul finire del secolo XVIII si cominciano ad avvertire i sintomi del declino del rosso materiale per la scomparsa dei banchi corallini, l’arte trapanese del corallo si avvia alla decadenza: gli scultori continueranno ad utilizzarlo associandolo ad altri materiali, per poi ripiegare definitivamente sull’avorio, l’osso, la madreperla, l’alabastro, le pietre dure, rinnovando così l’antica arte con altri materiali e altri manufatti.